mercoledì 20 agosto 2014

Introduzione al tennis epifenomenico (la Giraffa e la Bestia, prima parte)

Una tennistica menzogna viene perpetrata senza vergogna dai giornalisti del globo intero, e cioè la presunta dualità tecnico-psicologica degli incontri. A questa asserzione sommate il luogo comune che inquadra questo sport come il più dispendioso dal “punto di vista mentale” - concetto semplice ma arduo da contraddire, in effetti – e la derivante convinzione dello spettatore medio è che si giochi una partita contemporaneamente su due piani distinti, quello materiale e quello astratto. Può essere una dicotomia utile per approcciarsi al tennis, funzionale a seguirlo, ma è a dir poco riduttiva per descriverlo e narrarlo per come è. Del resto, se la concezione dominante del pubblico è quella appena detta, di certo non lo è anche la percezione dell'evento: a chiunque abbia visto più di dieci partite penso sia chiaro che su quel campo si scatenino forze devastanti, e che ci sia in gioco molto più che una vittoria: un top-100 si batte palesando il proprio passato, il proprio credo e, in generale, la propria stessa identità. Perché se è vero che il “livello mentale” conta anche nelle partite all'oratorio, in cui i giocatori sono concentrarti sul tennis solo ed esclusivamente durante quei novanta minuti, per un atleta come Nadal perdere equivale ad annichilirsi. A fallire nella vita. A essere spaghettificato da un buco nero. Qualche giorno fa ha dichiarato che per lui “c'è molto altro dopo il tennis”, ma stava evidentemente mentendo. Ho preso Rafael come esempio perché, a mio parere, è quello che più di tutti, almeno in tempi recenti, ha fatto coincidere la propria vita - intesa come obbiettivi, soddisfazioni e investimento temporale - col proprio tennis. Ma, al di là della concatenazione tra le forze sprigionate durante una partita (ci arriveremo tra poco) la grande menzogna citata inizialmente si rivela tale perché i due piani tecnico-mentali non possono, e non potranno mai, essere scissi. Ogni backspin è una tacita frase sibillina, ogni topspin profondo è una provocazione, un “come on” piazzato per andare a palla break vale tre colpi vincenti, una serie di recuperi stoici – vadano o non vadano a buon fine – dichiarano stentorea resistenza. Quando delle corde accarezzano una pallina le trasferiscono la vita del tennista, il suo gioco, le sue attuali intenzioni e il momentaneo stato mentale: mentre la sfera transita per aria si porta appresso un ecosistema di sensazioni e provocazioni, a cui l'altro atleta è chiamato a rispondere - mettendosi egualmente a nudo.

Dopo la finale di Wimbledon 2007, vinta da Federer al quinto set, Nadal ha pianto a lungo e persino vomitato, e si è isolato per giorni, al punto da non intravedere futuro davanti a sé (come potete apprendere da "Rafa", la sua autobiografia, che purtroppo non ha grosso valore letterario).
Si dice spesso che il tennis sia metafora di vita, e altrettanto frequentemente si leggono figure retoriche atte a ritrarre le gesta degli atleti – ormai ho perso il conto delle “poesie” scritte da Federer, ad esempio. È possibile che sia un metodo adeguato, e sicuramente, se dosato bene, è utile a estetizzare il tennis, donandogli dignità letteraria. Ma, personalmente, non l'ho mai trovato appropriato a dipingere le partite in sé e per sé; allo stesso tempo, considero ancora più lontani dalla realtà quei referti - scambiati per articoli - che inanellano schematiche descrizioni dei punti più interessanti, vivisezionando i colpi, deprivandoli dell'anima. Figuriamoci le demoniache statistiche. Come detto prima, scambiandosi la pallina i tennisti intrecciano anche i loro mondi, composti da padri, madri, fidanzati/e, allenamenti, stili: per questo, assistendo a una partita, mi pare che non ci sia bisogno di estetizzare ulteriormente quanto accade, se non per cercare qualcosa che vada oltre il tennis. I colpi, gli scontri, già di per sé sono figure retoriche, reificazioni di quelle immense potenze che elegantemente sintetizzano. Il tennis che possiamo osservare coi nostri occhi sta a quello epifenomenico come la poesia sta alla parafrasi. Per questo non penso che sia necessario ricamare ulteriormente su quello che potrebbe stare sopra i colpi, se non per parlare d'altro: se il fulcro del discorso è descrivere una partita, è giusto concentrarsi su quello che c'è sotto, non sopra. Srotolare quella matassa di sguardi, esultanze, silenzi, scambi, e mostrare tutte quelle cose vi si nascondono all'interno.

In questi scontri esistenziali ci sono due regole. La prima è comune allo sport che osserviamo sensibilmente, quello costituito da due corpi, una pallina, un campo e una rete: citando il maestro elvetico, “il tennis esige sempre una vittima”. Federer non ha scelto i termini a caso: quando ammirate un tennista perdere, mentre stringe la mano all'avversario, qualcosa in lui è stato profondamente ferito, forse addirittura ucciso. La seconda regola è che, se nella realtà osservabile ci sono forze astratte ed invisibili, al contrario non possono ontologicamente esistere in una dimensione epifenomenica, e parafrastica, come quella in cui ci avventureremo tra poco. Se un tennista pensa qualcosa, quel qualcosa subitaneamente si concretizza. Siano timori, colpi, punti o condanne, qui si reificano.

Entrare insieme in questo mondo e presentarvi come prima “essenza” la vera natura di Nadal sarebbe come prendere Dante per le manine, accompagnarlo oltre la soglia dell'Inferno e gettarlo senza orpelli in fondo all'imbuto, all'immediato cospetto di Satana imbufalito e surgelato. Senza gironi, Ulisse o limbo: niente tempo da perdere, subito la Bestia. Eppure, non essendo questo un romanzo ma un diario senza un percorso stabilito, non possiamo fare altrimenti: perché, di fatto, lo stesso Kyrgios qui si è trovato. Nick poteva già ritenersi soddisfatto, ne aveva tutti i motivi: arrivava dal trionfale Challenger di Nottingham, ed era giunto, issandosi con potenza e coraggio, fino agli ottavi di Wimbledon. Un traguardo tagliato dopo una spettacolare rimonta al secondo turno contro Richard Gasquet, il pavone transalpino, a cui aveva annullato nove match point. Forse Kyrgios non era cosciente, non pienamente, che ad aspettarlo c'era la Bestia. Tanto da dichiarare, poche ore prima della partita, “posso battere Nadal”.

Il giorno del match, sui verdi prati antistanti al Tempio, adornati da bianchi palazzi antichi e armoniose statue classiche, Nick si è ritrovato davanti all'informe, orrorifica massa liquida grumosa, figlia di bitume, petrolio e rimasugli di carogne, popolata da indomiti opliti spartani e chiamata, nel nostro mondo, “Nadal”: della ctonia distesa il povero Kyrgios non scorgeva la fine. In pochi hanno trovato la Bestia che domina questa nera palude, ancora meno sono sopravvissuti all'incontro, nessuno, neanche i vincitori, osano descriverne la forma agli altri. Col magnifico impeto dei suoi 19 anni, Nick ha alzato la testa, scrutato l'orizzonte, e senza timore ha posato la prima zampa in quel liquido fetido: così ha dato il via alla sua personalissima caccia al Mostro.


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