martedì 22 agosto 2017

Ci siamo?

Quasi. Forse. Non proprio. O meglio: speriamo di no. Kyrgios ha appena disputato, e perso, la sua prima finale in un Master 1000: a Cincinnati, contro Grigor Dimitrov, altresì detto Raffaellino del Colle, il manierista per eccellenza (Grigor, non Raffaellino). È stata la prima finale di questo tipo ad appannaggio di due tennisti nati negli anni '90, il che la dice lunga sulla qualità della generazione '90-'93. Nonostante l'immensa mole di talento in campo, non è stata una bella partita: Dimitrov è all'apice della propria carriera, non è mai stato così concentrato, così convinto e – soprattutto – così preparato dal punto di vista atletico. La differenza in questo senso è resa evidente dalla quantità di scambi lunghi vinti, con un imbarazzante quindici a uno a favore del bulgaro. Del resto Kyrgios non disputava sei partite di fila da tempo immemore; questa è appena la sua prima finale del 2017. In una carriera segnata dall'incostanza, nessuna stagione precedente lo era mai stata tanto quanto questa.

Ho perso, ma quanto sono buoni i gelati. 



Nick nella conferenza post-finale ha detto che, durante l'ultimo game, stava solamente pensando al gelato che avrebbe mangiato dopo l'incontro. Ha anche ribadito che non sa ancora quanto giocherà, ma che sì, suvvia, il prossimo anno – almeno – ci sarà sicuramente. Dopo aver battuto Ferrer in semifinale, ha ripetuto il suo mantra: “alla fine è solo un gioco, pensate a chi muore di fame”. In poche parole, per far concentrare Kyrgios sul tennis serve una partita contro Nadal, Federer o Djokovic, un match magniloquente in cui si senta chiamato in causa, uno di quegli appuntamenti in cui non può fallire per mantenere vivo il suo status di genio sregolato. E, in effetti, è l'unico tennista esistente a poter vantare un bilancio positivo o paritario con i tre fenomeni appena citati: a Cincinnati non ha battuto Nadal – lo ha letteralmente schiantato. Con un provocatorio, irrisorio e inutile tweener sul 3-0, 40-0 durante il primo set. Nadal non l'ha presa benissimo, e immaginate come avrà reagito Kicker, che durante la conferenza stampa post-partita è stato tirato in causa come emblema della mediocrità (“per me non è difficile affrontare Nadal sul centrale, anzi, per me il problema è trovare motivazioni contro Kicker, a Lione, di fronte a cinque spettatori”). Purtroppo per Nick, affrontare simili giocatori implica, e non c'è alternativa, batterne altri meno meritevoli di attenzione. La sua difficoltà principale è, ovviamente, trovare la motivazione e la concentrazione necessarie a uno sportivo d'alto livello: il sentirsi realizzato in quanto tennista, in quanto semplice tennista e non come salvatore del pianeta. Solo giocare contro quei tre fenomeni sembra interessarlo abbastanza dallo scordarsi d'essere Nick Kyrgios, nato nel 1995, tennista di professione, che lui considera un'esistenza poco appagante e, soprattutto, poco importante: solo in quei casi il suo talento fluisce florido, finalmente sublimato dall'attenzione di tutte le energie mentali, cerebrali e fisiche di cui potrebbe sempre disporre.

Eppure. Eppure dopo il disastroso Australian Open sembrava che, finalmente, Nick potesse sbocciare in tutto il suo splendore: ha inanellato due tornei eccezionali, Indian Wells (in cui si è ritirato ai quarti dopo aver battuto due a set a zero Zverev e Djokovic, e si è ritirato per un problema intestinale causato, secondo le malelingue, da una smodata ingestione di patatine) e Miami, in cui ha riaffermato la sua (transitoria, probabilmente) superiorità generazionale in un meraviglioso confronto con Zverev, e da cui è stato estromesso solamente dall'originale Raffaello, un Federer celestiale che è riuscito a piegare l'australiano dopo tre tie-break (e dopo aver subito un blasfemo – e spettacolare – tweener a rete). Lì tutti, stampa compresa, erano convinti che la carriera di Kyrgios stesse finalmente decollando: impressione corroborata dalla successiva vittoria in Coppa Davis contro gli Stati Uniti, in cui Kyrgios non solo è stato protagonista, ma ha anche dichiarato di “provare piacere giocando a tennis, finalmente”. Purtroppo, come dicevamo prima, per Nick il tennis – al momento, ma le cose difficilmente cambieranno in futuro – non è una priorità: la sua concentrazione può essere incrinata da piccolezze, figuriamoci dalla scomparsa di un parente. Ad aprile, subito dopo il turno di Coppa Davis, è morto suo nonno: nello scenario appena proposto, figuratevi l'impatto di un evento del genere. Quella concentrazione, quella dedizione tanto faticosamente costruita, è stata fatta esplodere in un nanosecondo dal lutto. Da lì, sostanzialmente, Kyrgios non ha più giocato: tante eliminazioni al primo turno, tante frasi discutibili (“non ho voglia di giocare”, “il tennis non mi interessa, ma non saprei che altro fare”), due slam falliti (Roland Garros e Wimbledon) e onorati solo con la presenza fisica. Ad aggravare la situazione, durante questo periodo ha assunto un allenatore senza alcuna convinzione, il povero Grosjean, solamente perché “me lo consigliavano tutti, e con lui mi trovo bene, mi rispetta, e alla fine comunque faccio un po' come mi pare”. Un allenatore per zittire i giornalisti, che tra l'altro dopo il Roland Garros non si è più visto; come non si è più vista del resto la persona che li ha fatti conoscere, ovvero Ajla Tomljanovic, la (ex) fidanzata di Kyrgios, da cui si è separato dopo che il “povero” Nick è stato avvistato, la sera stessa dell'eliminazione a Wimbledon, fuori da una discoteca, in piena notte, insieme a due promettenti giovani tenniste in minigonna (beccandosi pure delle minacce dal padre di una delle due: la giovane età della ragazza non deve aver agevolato le cose). Prima di essere eliminato al Queen's ha orgogliosamente scritto su twitter (rimuovendo poi il post) di aver terminato la Master Trial di Breath of the Wild, una sezione particolarmente impegnativa di un videogioco bellissimo: il problema è che lo ha scritto alle tre di notte, il giorno prima di giocare (e perdere).

Quando tutto sembrava andare per il peggio, Nick ha dato minimi segnali di vita a Toronto (limitandosi a non uscire al primo o al secondo turno, in pratica) e si è risvegliato a Cincinnati, dove ha miracolosamente (vista la precaria condizione fisica) raggiunto la finale. Nonostante sia il risultato più prestigioso della sua carriera, non è lecito essere ottimisti: si tratta di un “successo” fortuito, figlio dell'immenso talento di Nick e dell'incontro catalizzatore contro Nadal. Per questo all'inizio dell'articolo alla domanda “ci siamo?” ho risposto: speriamo di no. Se Kyrgios è questo, e con questo intendo quello del 2017, ci aspetta una carriera all'insegna della caos, figlia del momento e dell'istinto, priva di dedizione e di programmazione a lungo termine. Nick gira il mondo da anni, eppure la mamma lo segue ovunque – da qualche mese – perché teme che il figlio perda la testa. Sono troppi, davvero troppi i fattori che possono far saltare l'equilibrio ideale perché Kyrgios possa esprimersi bene in un torneo, figuriamoci in una serie di tornei consecutivi. Ad attenderlo adesso ci sono gli Us Open, e poi le semifinali di Coppa Davis. Da un anno esatto, dagli Us Open del 2016, racimola figure barbine negli slam: almeno loro, fino al 2016, erano stati in grado di guadagnarsi la preziosa attenzione di Nick. Questa è la maggior speranza, a metà 2017, per qualsiasi suo tifoso ed estimatore: che almeno negli eventi importanti, Kyrgios (ri)trovi la voglia e la concentrazione per giocare a tennis. Anche se è solo un gioco, sì.



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