Quasi. Forse. Non proprio. O meglio:
speriamo di no. Kyrgios ha appena disputato, e perso, la sua prima
finale in un Master 1000: a Cincinnati, contro Grigor Dimitrov,
altresì detto Raffaellino del Colle, il manierista per eccellenza
(Grigor, non Raffaellino). È stata la prima finale di questo tipo ad
appannaggio di due tennisti nati negli anni '90, il che la dice lunga
sulla qualità della generazione '90-'93. Nonostante l'immensa mole
di talento in campo, non è stata una bella partita: Dimitrov è
all'apice della propria carriera, non è mai stato così concentrato,
così convinto e – soprattutto – così preparato dal punto di
vista atletico. La differenza in questo senso è resa evidente dalla
quantità di scambi lunghi vinti, con un imbarazzante quindici a uno
a favore del bulgaro. Del resto Kyrgios non disputava sei partite di
fila da tempo immemore; questa è appena la sua prima finale del
2017. In una carriera segnata dall'incostanza, nessuna stagione
precedente lo era mai stata tanto quanto questa.
Ho perso, ma quanto sono buoni i gelati. |
Nick nella conferenza post-finale ha
detto che, durante l'ultimo game, stava solamente pensando al gelato
che avrebbe mangiato dopo l'incontro. Ha anche ribadito che non sa
ancora quanto giocherà, ma che sì, suvvia, il prossimo anno –
almeno – ci sarà sicuramente. Dopo aver battuto Ferrer in
semifinale, ha ripetuto il suo mantra: “alla fine è solo un gioco,
pensate a chi muore di fame”. In poche parole, per far concentrare
Kyrgios sul tennis serve una partita contro Nadal, Federer o
Djokovic, un match magniloquente in cui si senta chiamato in causa,
uno di quegli appuntamenti in cui non può fallire per mantenere vivo
il suo status di genio sregolato. E, in effetti, è l'unico tennista
esistente a poter vantare un bilancio positivo o paritario con i tre
fenomeni appena citati: a Cincinnati non ha battuto Nadal – lo ha
letteralmente schiantato. Con un provocatorio, irrisorio e inutile
tweener sul 3-0, 40-0 durante il primo set. Nadal non l'ha presa
benissimo, e immaginate come avrà reagito Kicker, che durante la
conferenza stampa post-partita è stato tirato in causa come emblema
della mediocrità (“per me non è difficile affrontare Nadal sul
centrale, anzi, per me il problema è trovare motivazioni contro
Kicker, a Lione, di fronte a cinque spettatori”). Purtroppo per
Nick, affrontare simili giocatori implica, e non c'è alternativa,
batterne altri meno meritevoli di attenzione. La sua difficoltà
principale è, ovviamente, trovare la motivazione e la concentrazione
necessarie a uno sportivo d'alto livello: il sentirsi realizzato in
quanto tennista, in quanto semplice tennista e non come salvatore del
pianeta. Solo giocare contro quei tre fenomeni sembra interessarlo
abbastanza dallo scordarsi d'essere Nick Kyrgios, nato nel 1995,
tennista di professione, che lui considera un'esistenza poco
appagante e, soprattutto, poco importante: solo in quei casi il suo
talento fluisce florido, finalmente sublimato dall'attenzione di
tutte le energie mentali, cerebrali e fisiche di cui potrebbe sempre
disporre.
Eppure. Eppure dopo il disastroso
Australian Open sembrava che, finalmente, Nick potesse sbocciare in
tutto il suo splendore: ha inanellato due tornei eccezionali, Indian
Wells (in cui si è ritirato ai quarti dopo aver battuto due a set a
zero Zverev e Djokovic, e si è ritirato per un problema intestinale
causato, secondo le malelingue, da una smodata ingestione di
patatine) e Miami, in cui ha riaffermato la sua (transitoria,
probabilmente) superiorità generazionale in un meraviglioso
confronto con Zverev, e da cui è stato estromesso solamente
dall'originale Raffaello, un Federer celestiale che è riuscito a
piegare l'australiano dopo tre tie-break (e dopo aver subito un
blasfemo – e spettacolare – tweener a rete). Lì tutti, stampa
compresa, erano convinti che la carriera di Kyrgios stesse finalmente
decollando: impressione corroborata dalla successiva vittoria in
Coppa Davis contro gli Stati Uniti, in cui Kyrgios non solo è stato
protagonista, ma ha anche dichiarato di “provare piacere giocando a
tennis, finalmente”. Purtroppo, come dicevamo prima, per Nick il
tennis – al momento, ma le cose difficilmente cambieranno in futuro
– non è una priorità: la sua concentrazione può essere incrinata
da piccolezze, figuriamoci dalla scomparsa di un parente. Ad aprile,
subito dopo il turno di Coppa Davis, è morto suo nonno: nello
scenario appena proposto, figuratevi l'impatto di un evento del
genere. Quella concentrazione, quella dedizione tanto faticosamente
costruita, è stata fatta esplodere in un nanosecondo dal lutto. Da
lì, sostanzialmente, Kyrgios non ha più giocato: tante eliminazioni
al primo turno, tante frasi discutibili (“non ho voglia di
giocare”, “il tennis non mi interessa, ma non saprei che altro
fare”), due slam falliti (Roland Garros e Wimbledon) e onorati solo
con la presenza fisica. Ad aggravare la situazione, durante questo
periodo ha assunto un allenatore senza alcuna convinzione, il povero
Grosjean, solamente perché “me lo consigliavano tutti, e con lui
mi trovo bene, mi rispetta, e alla fine comunque faccio un po' come
mi pare”. Un allenatore per zittire i giornalisti, che tra l'altro
dopo il Roland Garros non si è più visto; come non si è più vista
del resto la persona che li ha fatti conoscere, ovvero Ajla
Tomljanovic, la (ex) fidanzata di Kyrgios, da cui si è separato dopo
che il “povero” Nick è stato avvistato, la sera stessa
dell'eliminazione a Wimbledon, fuori da una discoteca, in piena
notte, insieme a due promettenti giovani tenniste in minigonna
(beccandosi pure delle minacce dal padre di una delle due: la giovane
età della ragazza non deve aver agevolato le cose). Prima di essere
eliminato al Queen's ha orgogliosamente scritto su twitter
(rimuovendo poi il post) di aver terminato la Master Trial di Breath
of the Wild, una sezione particolarmente impegnativa di un videogioco
bellissimo: il problema è che lo ha scritto alle tre di notte, il
giorno prima di giocare (e perdere).
Quando tutto sembrava andare per il
peggio, Nick ha dato minimi segnali di vita a Toronto (limitandosi a
non uscire al primo o al secondo turno, in pratica) e si è
risvegliato a Cincinnati, dove ha miracolosamente (vista la precaria
condizione fisica) raggiunto la finale. Nonostante sia il risultato
più prestigioso della sua carriera, non è lecito essere ottimisti:
si tratta di un “successo” fortuito, figlio dell'immenso talento
di Nick e dell'incontro catalizzatore contro Nadal. Per questo
all'inizio dell'articolo alla domanda “ci siamo?” ho risposto:
speriamo di no. Se Kyrgios è questo, e con questo intendo quello del
2017, ci aspetta una carriera all'insegna della caos, figlia del
momento e dell'istinto, priva di dedizione e di programmazione a
lungo termine. Nick gira il mondo da anni, eppure la mamma lo segue
ovunque – da qualche mese – perché teme che il figlio perda la
testa. Sono troppi, davvero troppi i fattori che possono far saltare
l'equilibrio ideale perché Kyrgios possa esprimersi bene in un
torneo, figuriamoci in una serie di tornei consecutivi. Ad attenderlo
adesso ci sono gli Us Open, e poi le semifinali di Coppa Davis. Da un
anno esatto, dagli Us Open del 2016, racimola figure barbine negli
slam: almeno loro, fino al 2016, erano stati in grado di guadagnarsi
la preziosa attenzione di Nick. Questa è la maggior speranza, a metà
2017, per qualsiasi suo tifoso ed estimatore: che almeno negli eventi
importanti, Kyrgios (ri)trovi la voglia e la concentrazione per
giocare a tennis. Anche se è solo un gioco, sì.
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